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Rimetti a noi i nostri debiti – Recensione (No Spoiler)

17 Maggio 2018 Articoli per NerdPlanet.it Cinema recensioni


C’era grande attesa per Rimetti a noi i nostri debiti, primo film italiano originale Netflix, e le grandi aspettative su questa pellicola non hanno deluso.

Il regista carrarese Antonio Morabito, che è anche sceneggiatore del film, imbastisce un dramma sociopolitico dai toni intimisti e amaramente ironici che sorprende per acume. Pur non essendo privo – sin dal titolo – di riferimenti religiosi e letterari, Rimetti a noi i nostri debiti si caratterizza per la freschezza dei contenuti e per l’immediatezza dei messaggi.

Un affresco sociale alla Hieronymus Bosh

Se, dunque, semplice ed evidente appare l’imbastitura del messaggio, più complesse appaiono intelaiatura ed imbastitura dell’opera. I registri stilistici utilizzati sono molteplici, dalla satira feroce alla comicità bonaria, sfruttando al meglio un materiale pregiato che qui è rappresentato, praticamente in toto, dall’inedita ma già travolgente coppia Santamaria/Giallini. L’esplosivo duo di addetti alla riscossione crediti diviene qui trasfigurazione, in piccolo, di un’intera società; vittime e carnefici insieme, buoni e cattivi, indulgenti e remissivi e intransigenti castigatori. Un po’ comici da “castigat ridendo mores“, un po’ monaci trappisti da “memento mori“.
Pur “rimettendo” qualche debito, la spietata analisi sociale portata avanti da Morabito – che, come Bosch, nonostante la profusione di realismo, si sforza di esprimere l’immateriale – non fa sconti in termini di assoluzione, anzi ci condanna tutti, costringendoci a guardarci dentro attraverso uno specchio che non nasconde nulla, non indulge sul ben che minimo difetto. In una Roma trasfigurata in un’anticamera d’inferno, la condanna è totalizzante, dalla società nel suo complesso, coi suoi sistemi politico-economici iniqui, corrotti e ipocriti, al singolo individuo, coi propri vizi, bassezze morali, falsità e miserie varie.

Non si può neanche dire che sia una condanna di classe, perché così come non risparmia coloro che speculano su questo sistema economico (banche, riscossori dei crediti, imprenditori che galleggiano sui prestiti o sul lavoro precario etc.), altrettanto dura è l’accusa verso la gente comune e persino verso i poveri, tutti fantasmi, “morti in vita”. Uno stuolo di personaggi danteschi condannati dal “prestito”; c’è chi fa prestiti per andare in vacanza pur non potendoselo permettere, chi per ostentare un tenore di vita distante dalle reale disponibilità, chi per autentico bisogno pur sapendo di non poter saldare il debito.


Trama

Guido Rabaglia (Claudio Santamaria), nn più giovanissimo, vive tirando avanti come può: un lavoro saltuario da magazziniere, qualche bicchiere al bar con Rina (Flonja Kodheli), la nuova barista, e un vecchio professore (Jerzy Stuhr) vicino di casa con cui parlare ogni tanto. A pendere sulla sua vita sono soprattutto i molti debiti accumulati.
Quando perde il lavoro e subisce un’aggressione commissionata dai suoi creditori, capisce che l’unico modo per risollevarsi è, paradossalmente, lavorare per loro, divenendo lui stesso un esattore; lavorerà gratis fino a quando il debito sarà estinto.
Franco (Marco Giallini) è un esperto e affermato recuperatore di crediti. Un demonio sul lavoro, un angelo tra le mura della sua bella casa, con la sua famiglia. Un equilibrio trovato grazie a fugaci confessioni in chiesa e corse mattutine nei vialetti del cimitero. È Franco che dovrà occuparsi della formazione di Guido. Una coppia singolare, la loro: Franco, estroso e accattivante, una maschera inscalfibile per Guido; Guido, riservato e solitario, un libro aperto per Franco. Due ruoli destinati a una mutua contaminazione. In poco tempo Guido entrerà così in contatto con persone che hanno soldi ma non vogliono pagare e con altre invece offese e umiliate, che hanno già perso tutto. A quel punto Guido non potrà non dare ascolto alla sua coscienza, costringendo Franco a svelare la propria natura.


I segreti (tecnici) di un successo

Una sceneggiatura impeccabile, quella scritta da Morabito insieme ad Amedeo Pagani, tutta giocata sui personaggi e su paesaggi circoscritti, è alla base di un’eccellente pellicola. Santamaria e Giallini, in stato di grazia, rendono sempre fluida e dinamica l’azione. La regia ha un taglio decisamente documentaristico che conferisce maggiore credibilità alla narrazione. Sorprende la fotografia desaturata di Duccio Cimatti. Le superbe inquadrature sono giocate sulle eccellenti scenografie di Marcello Di Carlo.

 


Figure chiave

A parte i due personaggi principali, Guido e Franco, facce della stessa medaglia, colte in tappe differenti di quello che però è un tragitto in comune, almeno altre due figure chiave hanno attirato la nostra attenzione; il professore polacco, con le sue teorie “politico-balistiche” espresse giocando a biliardo, e la barista immigrata, con la quale Guido instaurerà un interessante rapporto. Non sembra un caso che queste due figure siano straniere, immigrate.
Non sembra un caso che la denuncia del film investa soprattutto il nostro paese più che l’intero mondo. Queste due figure, pur nella loro diversità e nel differente gradiente di “integrazione”, descrivono dal di fuori un paese (l’Italia naturalmente) pericolosamente in bilico.

Per il professore il nostro paese è inquadrabile nella “teoria dei frattali”; “il frattale” dice l’anziano polacco “è un sistema matematico che si ripete all’infinito; ha una struttura come quella di un cavolfiore. Se tu stacchi un pezzo di cavolfiore, questo pezzettino nuovo è, in piccolo, identico al cavolfiore originario. Il sistema politico italiano è come un frattale, non fa altro che riproporre modelli già collaudati” e in seguito aggiunge: “per stare dentro al sistema devi avere un po’ di sistema dentro di te“. La barista, unica che sembra non essere intaccata da questo sistema italiano che tutti fagocita, sottomette e rende fantasmi, confida a Guido di non trovarsi bene in Italia perché “la gente è troppo triste e rassegnata“.

Verdetto

Un film di grande spessore artistico; ben sceneggiato, perfettamente diretto e magistralmente interpretato da un ispiratissimo duo Santamaria/Giallini. Notevoli anche la fotografia di Duccio Cimatti e la scenografia di Marcello Di Carlo. Un lavoro impegnato dentro cui si riversa una grande ricerca sociale e artistica al contempo. Siamo sicuri che sentiremo presto dire un gran bene di questa pellicola e che si potrà sperare in un seguito. Certamente Morabito ed i suoi scudieri Santamaria e Giallini hanno portato una ventata di aria fresca nel racconto, troppo spesso autoassolutorio, degli ultimi anni di vita italiana e chissà che non faranno presto scuola e proseliti. Da vedere assolutamente.

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